Archivio annuale 11 Gennaio 2011

DiRaffaele Boccia

La quota di riserva non si accresce se taluno dei legittimari non esercita l’azione di riduzione

Ai fini dell’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nell’ambito della stessa categoria, occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinuncia o prescrizione) dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari.

Il mancato esercizio dell’azione di riduzione (per rinuncia o per prescrizione) da parte di alcuni dei legittimari non determina l’aumento delle quote di legittima spettanti agli altri legittimari, poiché per l’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari ed ai singoli legittimari nell’ambito della stessa categoria è necessario fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione.

Così la Cassazione a Sezioni Unite (n. 13524 del 12 giugno 2006) – che compie un “giro di boa” rispetto al precedente indirizzo giurisprudenziale – in ordine al ricorso di un discendente che chiedeva, a causa del mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte di un altro legittimario della stessa categoria, l’accrescimento della quota teorica di riserva.

In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che:

– l’art. 522 c.c. non possa essere applicato analogicamente alla successione necessaria dal momento che verrebbe a mancare il presupposto logico dell’accrescimento, cioè la chiamata ereditaria;

– il dato letterale delle norme in tema di successione necessaria indica, con tutta evidenza, che, ai fini del calcolo della quota di riserva, si deve fare riferimento alla situazione cristallizzata al momento dell’apertura della successione;

– l’art.537 c.c., che dispone la riserva a favore dei legittimari, parla di figli e non di eredi accettanti..

L’ininfluenza sulla quota di riserva della rinuncia all’azione di riduzione da parte del legittimario non comporta – secondo i giudici della S.C. – alcuna incertezza sul destino dei beni ereditari dal momento che questi saranno conservati dagli eredi, dai donatari o dai legatari in misura maggiore rispetto a quella di cui poteva disporre il de cuius.

Nella successione necessaria, il legislatore, infatti, si è preoccupato di far sì che ad ognuno dei legittimari considerati venga garantita una porzione del patrimonio del de cuius anche contro la volontà di quest’ultimo.

Mancando una chiamata congiunta ad una quota globalmente considerata con riferimento alla ipotesi di pluralità di riservatari (ed anzi essendo proprio la mancanza di chiamata ereditaria il fondamento della successione necessaria), da un lato, viene a cadere il presupposto logico di un teorico accrescimento, e, dall’altro, non esistono incertezze in ordine alla sorte della quota (in teoria) spettante al legittimario che non eserciti l’azione di riduzione: i donatari o gli eredi o i legatari, infatti, conservano una porzione dei beni del de cuius maggiore di quella di cui quest’ultimo avrebbe potuto disporre.

La lettera della legge, poi, costituisce un ostacolo insormontabile per l’adesione alla diversa tesi finora sostenuta in dottrina ed in giurisprudenza.

Dalla formulazione degli artt. 537 c.c., comma 1 (“se il genitore lascia”), 538 c.c., comma 1 (“se chi muore non lascia”), 542 c.c., comma 1 (“se chi muore lascia”), 542 c.c., comma 2 (“quando chi muore lascia”), risulta chiaramente che si deve fare riferimento, ai fini del calcolo della porzione di riserva, alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione; non viene preso, invece, in considerazione, a tal fine, l’esperimento dell’azione di riduzione da parte di alcuno soltanto dei legittimari.

Mancano, pertanto, le condizioni essenziali (esistenza di una lacuna da colmare e possibilità di applicare il principio ubi eadem ratio ibi eadem legis dispositio) per una estensione in via analogica delle norme in tema di successione legittima.

La tesi precedente, poi, sembra in contrasto con la ratio ispiratrice della successione necessaria, che non è solo quella di garantire a determinati parenti una porzione del patrimonio del de cuius, ma anche (come rovescio della medaglia) quella di consentire a quest’ultimo di sapere entro quali limiti, in considerazione della composizione della propria famiglia, può disporre del suo patrimonio può disporre in favore di terzi. E’ evidente che l’esigenza di certezza in questione non verrebbe soddisfatta ove tale quota dovesse essere determinata, successivamente all’apertura della successione, in funzione del numero di legittimar che dovessero esperire l’azione di riduzione.

I precedenti orientamenti in giurisprudenza e dottrina

Le precedenti pronunce della S.C. sugli effetti della rinuncia all’azione di riduzione da parte del legittimario sulla quota di riserva, seguivano linee interpretative diverse:
– le prime, più risalenti nel tempo, affermano che in caso di pluralità di legittimari (nell’ambito della stessa categoria) ciascuno di loro abbia diritto ad una frazione della quota di riserva e non all’intera quota, o comunque ad una frazione più ampia di quella che gli spetterebbe se tutti gli altri non facessero valere il loro diritto (Cass. nn. 3500/75 e 5611/78);
– la seconde, alla luce dell’applicazione in via analogica alla successione necessaria degli artt. 521 e 522 c.c., sostengono che la quota di riserva si “espanda” nelle ipotesi di mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte del legittimario pretermesso, poiché “a norma dell’art. 521 c.c. la rinunzia all’eredità è retroattiva nel senso che l’erede rinunciante si considera come se non fosse mai stato chiamato all’eredità…”. Il calcolo della quota di riserva deve essere effettuato sulla base del numero dei legittimari che concretamente concorrono nella ripartizione dell’asse ereditario, senza “far riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione, dal momento che tale situazione è destinata a mutare, per effetto di eventuali rinunzie, con effetto retroattivo” (cfr. Cass. nn. 949/62, 3888/76, 2434/87 e 1529/95).

La dottrina, a sua volta, riteneva che la disciplina prevista all’art. 521 c.c. fosse applicabile analogicamente alla successione necessaria e che, pertanto, il legittimario che rinuncia all’eredità o che rinuncia ad agire in riduzione perde la sua qualifica e, divenendo un estraneo alla successione necessaria, non può far numero per il calcolo della quota riservata.

Altra dottrina, convinta che la successione legittima e quella necessaria siano due specie dello stesso genere, sosteneva che l’art. 522 c.c. fosse applicabile anche alla successione necessaria e che, pertanto, la rinuncia del legittimario comportasse l’espansione della quota di riserva.

DiRaffaele Boccia

Detrazioni per familiari a carico: la coppia di fatto

Il caso: Famiglia di fatto. Figlio naturale riconosciuto da entrambi i genitori. Separazione dei genitori. Figlio minore convivente con la madre. Affido esclusivo (di fatto). NESSUN PROVVEDIMENTO DEL TRIBUNALE (nè scrittura privata). Corresponsione da parte del padre di un contributo mensile per il mantenimento del figlio. Dichiarazione della madre ai fini IRPEF figlio a carico al 100% . Dichiarazione figlio a carico al 50% del padre (mai concordata e tantomeno comunicata). Sanzione alla madre da parte dell’Agenzia delle Entrate perchè lo stesso familiare risulta fiscalmente a carico di altro soggetto. Che fare????? Grazie (Ennio, email)

Salve. Se non c’è provvedimento giudiziale di separazione (e nel suo caso non puó esserci, trattandosi di coppia di fatto) ovvero accordo tra i genitori che preveda diversamente, la detrazione spetta a ciascun genitore nella misura del 50%.

Ricordiamo che i genitori possono decidere di accordare l’intera detrazione a carico di quello tra essi col reddito più elevato per evitare che la detrazione non possa essere fruita in tutto o in parte dal genitore col reddito più basso. Altra cosa sono le spese detraibili (quali, ad esempio, le spese mediche), che la madre ha sostenuto per il figlio. In tal caso, puó detrarre il 19% dell’intera spesa sostenuta.

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DiRaffaele Boccia

Illegittima la comunicazione di detrazione dei punti se è ancora possibile l’impugnazione

Gentile avvocato, avevo proposto ricorso al Prefetto contro una multa per eccesso di velocità che mi irrogava anche la decurtazione dei punti dalla patente di guida. Il Prefetto mi ha rigettato il ricorso e, ancor prima che potessi impugnare l’ordinanza-ingiunzione innanzi al Giudice di Pace (i termini erano ancora in corso), il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti mi ha comunicato l’avvenuta decurtazione dei punti. Che posso fare? (Vincenzo C., email)

Salve. In un caso del tutto analogo al suo, la Cassazione (sez. un., 23 aprile 2010 n. 9691) ha precisato che, essendo la decurtazione dei punti una sanzione amministrativa conseguente alla violazione di norme sulla circolazione stradale, e quindi connessa all’esito del procedimento avente ad oggetto la contestazione principale, “deve ritenersi illegittimo il provvedimento recante la comunicazione della annotazione nell’anagrafe nazionale degli abilitati alla guida della riduzione del punteggio relativo alla patente di guida laddove risulti la non avvenuta “definizione” della violazione”.

Difatti, l’art.126 bis, comma 2, del Codice della strada espressamente subordina la decurtazione alla definizione della contestazione effettuata.

La contestazione, riguardante, come detto, la violazione principale (nel suo caso, l’eccesso di velocità), si intende definita quando sia avvenuto il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria o siano conclusi i procedimenti dei ricorsi amministrativi e giurisdizionali ammessi ovvero siano decorsi i termini per la proposizione dei medesimi. Nel suo caso, essendo ancora aperti i termini per il ricorso al giudice di pace avverso l’ordinanza-ingiunzione prefettizia, il provvedimento di decurtazione dei punti è certamente illegittimo e, impugnato, dovrà essere annullato.

DiRaffaele Boccia

Eliminazione di barriere architettoniche nel condominio: limiti e casistica

In tema di condominio, la regola generale impone che deliberazioni relative ad innovazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni vengano adottate con la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell’edificio (art.1120, comma 1 c.c. che richiama il quinto comma dell’art.1136).

Quando, invece, le innovazioni sono dirette a favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche, esse possono essere approvate con maggioranze ridotte rispetto a quelle cui rinvia l’art.1120, comma 1 c.c..

E’ quanto previsto dall’art. 2 legge 9 gennaio 1989 n.13 che consente all’assemblea condominiale di deliberare con le maggioranze indicate nell’art. 1136, comma 2 e 3,c.c. (maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio o, in seconda convocazione, con voto favorevole di un terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell’edificio).

Nel caso in cui il Condominio, sulla richiesta scritta dell’interessato, rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta, le deliberazioni necessarie alla realizzazione delle innovazioni idonee all’eliminazione delle barriere, i portatori di handicap, ovvero chi ne fa le veci, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso all’edificio, alle rampe ed ai garages.

Restano, tuttavia, vietate le innovazioni che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso e al godimento anche di un solo condomino, comportandone una sensibile menomazione dell’utilità secondo l’originaria costituzione della comunione, ovvero che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, o che ne alterino il decoro architettonico (art.1120, comma 2, c.c.)

In un caso, è stata dichiarata la nullità della deliberazione di installazione di un ascensore volto a favorire le esigenze di due condomini portatori di handicap, in quanto essa, comportando la riduzione a cm.85 della larghezza della rampa delle scale, rendeva disagevole il contemporaneo passaggio di più persone e problematico il trasporto di oggetti di grosse dimensioni.

In un altro caso, si è escluso che l’apertura di un varco nell’androne condominiale, necessaria per l’installazione dell’ascensore, comportasse lesione al decoro architettonico del fabbricato od altro dei pregiudizi previsti dal 2° comma dell’art.1120 c.c. come integrativi delle innovazioni vietate in modo assoluto.

In altra fattispecie (Tribunale Ascoli Piceno, 21 febbraio 2005), non è stata consentita l’installazione di un ascensore nel pozzo luce di un edificio condominiale in quanto la cabina dell’ascensore avrebbe dovuto essere posizionata a meno di trenta centimetri dalle finestre delle abitazioni di altri condomini, addirittura facendo venir meno, per una parte di esse, i requisiti minimi di illuminazione naturale e di aerazione.
Puó affermarsi che tale ultima pronuncia è pienamente coerente con il divieto posto dal secondo comma del richiamato art.1120, in quanto tale innovazione avrebbe comportato grave compromissione dei diritti di proprietà esclusiva su altre unità immobiliari comprese nell’edificio, non essendo configurabile a carico dei vicini l’obbligo di adattamento delle proprie porzioni di piano in relazione alle esigenze del portatore di handicap.

l’art. 2 legge 9 gennaio 1989 n. 13

1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118, ed all’articolo 1, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, n. 384, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.

2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages.

3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile.

DiRaffaele Boccia

Reversibilità: spetta all’ex coniuge solo se già titolare di assegno di divorzio

Il coniuge rispetto al quale sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che non sia passato a nuove nozze, può vantare il diritto – in caso di morte dell’ex coniuge – alla attribuzione della pensione di reversibilità, o di una quota di questa qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per goderne e con il quale debba concorrere, a condizione che l’istante sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5 della stessa l. n. 898 del 1970, cioè che vi sia stato l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale (art. 9 l. n. 898 del 1970, come sostituito dall’art. 13 l. n. 74 del 1987 e come autenticamente interpretato – con disposizione quindi retroattiva – dall’art. 5 l. n. 263 del 2005). Non è sufficiente, pertanto, perché sorga il diritto alla pensione “de qua” (o a una sua quota) che il richiedente si trovi nelle condizioni per ottenere l’assegno in parola e neppure che, in via di fatto, o anche per effetto di private convenzioni, abbia ricevuto regolari erogazioni economiche dal de cuius, quando questi era in vita (Cassazione civile sez. I, 24 maggio 2007 n. 12149).

E’ necessario, dunque, che l’assegno sia stato attribuito con provvedimento giurisdizionale, e che, quindi, al momento della morte dell’ex coniuge – convolato a nuove nozze – il richiedente sia titolare di un assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto ai sensi dell’art. 5 l. 898/70. Nel novero dei provvedimenti giurisdizionali idonei ad attribuire un “assegno di divorzio” non rientrano i provvedimenti temporanei e urgenti previsti dall’art. 4 n. 8 l. sul divorzio, diretti ad apprestare un regolamento essenziale e immediato al coniuge nella prospettiva del divorzio, con funzione anticipatoria rispetto alle statuizioni della sentenza di scioglimento del matrimonio (Cassazione civile sez.I, 09 giugno 2010 n. 13899).

L’assegno di divorzio deve essere stato attribuito esclusivamente a beneficio e nell’interesse dell’ex coniuge; qualora l’assegno sia stato disposto nell’interesse e a beneficio di un figlio minore da tutelare, il diritto alla pensione di reversibilità è a tempo determinato e deve ritenersi cessato una volta esaurita la funzione della corrispondente tutela (Cassazione civile sez.lav., 23 giugno 2008 n. 17047).

Nella ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge, occorre tener conto (art. 9, comma 3, l. n. 898 del 1970, nel testo novellato dall’art. 13 l. n. 74 del 1987) della durata del matrimonio, nel senso che non è possibile prescindere dall’elemento temporale, e che ad esso può essere attribuito, secondo le circostanze, valore preponderante e anche decisivo. Ma tale criterio non si pone come unico ed esclusivo parametro cui conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo matematico, potendo essere corretto da altri criteri, da individuare nell’ambito dell’art. 5 l. n. 898 del 1970, in relazione alle particolarità del caso concreto, nella misura in cui ciò sia necessario per evitare, per quanto possibile, che l’ex coniuge sia privato dei mezzi necessari a mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare (o contribuire ad assicurare) nel tempo l’assegno di divorzio, ed il secondo coniuge del tenore di vita che il “de cuius” gli assicurava (o contribuiva ad assicurargli) in vita.

Peraltro, i predetti elementi desumibili dall’art. 5 costituiscono anche il limite giuridico all’aspettativa del coniuge divorziato o del coniuge superstite, il quale può restare parzialmente insoddisfatto a causa del concreto ammontare della pensione di reversibilità , sia in relazione alla esigua durata del matrimonio dell’uno rispetto a quello dell’altro, sia sulla base degli elementi di valutazione complessiva, fra i quali il contributo dato da un coniuge rispetto all’altro nella conduzione familiare (Cassazione civile sez.I, 09 maggio 2007 n. 10638).

il comma 6 dell’art.5 L.898/1970

Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.